sabato 12 luglio 2008

La Tenaglia che Stringe il Pd

Meritano molto rispetto, Veltroni e il Pd. Le ore che stanno vivendo
sono le più difficili da quando la loro nave ha preso il largo,
peggiori ancora di quelle successive alla sconfitta. E da come
supereranno questa prova dipenderà moltissimo del futuro
dell'opposizione e della legislatura. Meritano molto rispetto, Walter
Veltroni e il Pd, perché queste ore le vivono stretti in una
tenaglia. Di qua, Antonio Di Pietro. Dopo averlo voluto unico alleato nelle
scorse elezioni, adesso Veltroni se lo ritrova nei panni non ancora
dell'avversario dichiarato, ma certo del concorrente duro e
spregiudicato; che non si fa scrupolo, anzi, di far ricorso, e con
successo alla piazza, contro Silvio Berlusconi, certo, ma anche
contro di lui. Di là, ovviamente, Berlusconi. Dopo gli scambi di cordialità,
e le reciproche promesse di dialogo, adesso Veltroni si trova di fronte
un capo del governo che per difendere i propri interessi non si
preoccupa affatto di metterlo in gravissime difficoltà, al punto di
offrire lui stesso, chissà quanto consapevolmente, munizioni
all'offensiva dipietrista, quasi che, a farsi rappresentare come il
Caimano, cominciasse a riprenderci gusto. Meritano molto rispetto,
Walter Veltroni e il Pd, perché questo su cui sono costretti a muoversi
in un contesto così sfavorevole è diventato, per loro, un terreno
minato. Tanto minato da rendere poco plausibile venirne fuori con
qualche accorgimento tattico, facendo affidamento sulla sola manovra
parlamentare, visto, oltretutto, che su questo piano governo e
maggioranza (nonostante i mal di pancia della Lega) concedono poco o,
per essere più precisi, nulla. Bisogna, in una parola, scegliere, e
farlo mettendo in conto che scelte indolori, che non comportino
rotture e comunque prezzi pesanti, non ce ne sono. E bisognerebbe scegliere
(qui il condizionale diventa d'obbligo) tenendo fede a quelle che
sono state rappresentate, a suo tempo, come le ragioni di fondo nel cui
nome entravano in scena un nuovo partito e un nuovo leader. Non solo per
limitare il danno in una prova elettorale comunque destinata alla
sconfitta, ma, si è detto, per inaugurare una pagina nuova nella vita
politica italiana. Se Walter Veltroni e il Pd riuscissero a farlo,
non meriterebbero solo rispetto, ma anche apprezzamento. E riconoscenza.
Archiviare l'idea antica, forse inconfessabile ma sicuramente assai
radicata, secondo cui l'iniziativa giudiziaria è una sorta di
prosecuzione della politica con altri mezzi; liberarsi dell'idea più
antica ancora, e ancora più radicata, secondo la quale l'avversario
non è soltanto politicamente deprecabile, ma è anche e soprattutto un
furfante che vince giocando nel modo più scorretto e sleale per
abbindolare il popolo bue, e poi della politica e del potere si
avvale soltanto per tutelare in dispregio di ogni regola i propri sordidi
interessi; abbandonare la presunzione di essere, quasi per
definizione, detentori di una superiore moralità. Tutto questo non è difficile. Se
lo si vuol fare davvero, è difficilissimo. Tanto più se l'avversario
in questione fa di tutto (basta vedere quanto sta capitando con il
cosiddetto lodo Alfano) per confortarti in questi cattivi pensieri;
se tanta parte della tua gente continua a nutrirli; se
l'antiberlusconismo è stato per un quindicennio almeno il collante del tuo mondo. Ma
senza una simile rivoluzione, infinitamente più impegnativa delle
chiacchiere sulla necessità del dialogo, che un giorno compare, il giorno dopo si
inabissa e il terzo torna a fare capolino, tutte le promesse
sull'avvento del tempo nuovo del bipolarismo o addirittura del
bipartitismo finalmente dispiegato perdono peso e valore. E perdono
quota anche le speranze di mettere in piedi in tempi utili
un'opposizione che ambisca finalmente a sottrarre al centrodestra —
dopo quindici anni! — la maggioranza del voto popolare.
Forse più che verso la cosiddetta sinistra radicale, che ha tanti
difetti e tanti guai, ma almeno da quello che impropriamente
chiamiamo giustizialismo è in larga misura immune, è nei confronti delle
bravissime persone che ieri si sono date numerose convegno a piazza
Navona che andrebbe condotta quella che un tempo si chiamava una
battaglia politica e ideale. Per sottrarne quante più è possibile
all'egemonia di culture, chiamiamole così, e di leader che con il
riformismo e la sinistra così come mediamente si intendono sotto ogni
cielo non hanno niente da spartire. Non c'è riformista sulla faccia
della terra a cui potrebbero passare per la testa le volgarità
inaudite di Beppe Grillo sul presidente Napolitano, non c'è donna di sinistra
che pronuncerebbe le parole riservate a un'altra donna, ancorché
ministro del governo Berlusconi, da Sabina Guzzanti: e suonano un po'
ipocrite le parole di dissociazione che, a cose fatte, alcuni
illustri partecipanti alla manifestazione si sono sentiti in dovere di dire.
Veltroni, prendendo le distanze da Di Pietro, ha detto nei giorni
scorsi che delle alleanze si giudicano gli esiti, ma non ci si pente.
Anche se pentimento in politica è una parola stupida e un po'
equivoca, sbaglia. Quello fu un errore. Un errore serio e grave, destinato in
partenza a produrre i guai che ha prodotto e che non riguardano solo
quella buona creanza per cui non si dà del magnaccia al presidente
del Consiglio. Riconoscerlo e tirarne le conseguenze (che non significa
affatto alzare bandiera bianca sulla giustizia) sarà impopolare, ma è
necessario. E i leader veri, e convinti delle proprie idee, sanno che
ci sono momenti in cui l'impopolarità bisogna sfidarla.

paolo franchi sul corriere della sera del 9 luglio 2008

Nessun commento: